Ho già avuto modo di esprimere le mie
perplessità riguardo l'intenzione, da parte del governo cinese, di
promuovere la pratica del Tai ji Quan al punto di farla giungere ad
una diffusione “globale” alla stregua di quella ottenuta a suo
tempo dallo Yoga.
Francamente, non potrei immaginare una
catastrofe peggiore: per quanto alcuni vi vedranno l'opportunità
decisiva per incrementare la propria fama e i propri introiti, o si
sentiranno finalmente sdoganati agli occhi del grande pubblico, una
prospettiva simile non rappresenterebbe altro che una brusca
accelerazione del processo degenerativo iniziato, suo malgrado, con
Yang Chenfu e culminato con la codifica della famigerata forma di
Pechino (1956), alla quale si deva una prima, massiccia diffusione
del Tai Ji al di fuori dell'ambiente delle arti marziali.
Infatti, a partire dalla codifica
sempre più rigida delle forme del Tai Ji Quan, ossia il vero e
proprio peccato originale della concezione falsata della disciplina,
questa volontà di rendere più semplice e soprattutto omogeneo il
modo di praticare ne ha eroso progressivamente la percezione
corretta, fatta di comprensione e manifestazione di principi, e non
di adeguamento pavloviano a modelli morti e imposti.
Quello non è Tai Ji Quan, punto.
E non potrebbe essere altrimenti,
perchè il Tai Ji Quan è in primo luogo un fatto di ricerca strettamente
personale, condivisibile tutt'al più con un ristretto numero di
“fratelli” insieme ai quali è possibile instaurare un rapporto
di mutuo scambio e supporto, e non ha evidentemente nulla a
che spartire con l'immersione nella poltiglia anonima di cui sopra, e
che in molti, cinesi per primi, vorrebbero diffusa “globalmente”.
Oltretutto, la pratica autentica del Tai Ji Quan,
come del resto avviene in altre arti e discipline tradizionali,
conserva, in particolar modo in quel che riguarda la didattica, delle
caratteristiche e modalità proprie che si potrebbero definire
“artigianali”, frutto cioè, di una maestria acquisita e
applicata ad un dato materiale a seconda delle esigenze di un preciso
committente, e quindi decisamente estranea all'organizzazione
“industriale” di creazione e messa in vendita di un qualunque
prodotto standard fruibile da chiunque.
In definitiva, ad agitarsi è sempre lo
spettro del voler rendere omogeneo qualcosa che omogeneo non è, e
non può diventarlo a meno di non venir meno alla sua propria natura.
E ciò che non è omogeneo è giocoforza escluso da un eventuale
mercato “globale”, come quello che si vorrebbe veder aperto nel
prossimo futuro...
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